domenica 3 febbraio 2013

Pantani

Ieri sera sono andato a teatro a vedere il "Pantani" messo in scena da Marco Martinelli per il Teatro delle Albe (qui). Bello spettacolo, diviso in due parti: la prima, incentrata sull'ascesa in Paradiso del Campione, dai primi passi col Gruppo Ciclistico Fausto Coppi, al magico 1998, quello dell'accoppiata Giro- Tour; la seconda, invece, sulla sua caduta all'Inferno, dopo il terribile 5 giugno del 1999, quando, prima della tappa di Madonna di Campiglio, fu escluso dal Giro per ematocrito alto.
La storia di Pantani, per me, è una ferita ancora aperta. Non voglio definirmi un suo tifoso: il tifo, di per sé, è qualcosa di dogmatico, che ha a che fare con la fede. L'idolo non si discute, ha sempre ragione, e tutti quelli che lo criticano sono considerati degli infedeli. Diciamolo subito: Pantani non ha mai subito una condanna penale o una squalifica per doping e anche l'episodio di Madonna di Campiglio non è mai stato ben chiarito. Lo stesso giorno, poche ore dopo l'esclusione dal Giro d'Italia, Pantani fece un altro esame in un laboratorio dell'Unione ciclistica internazionale e il suo ematocrito risultò entro i limiti.
Non è, però, la sua vicenda giudiziaria, con i suoi torti e le sue ragioni, che mi interessa oggi, a nove anni dalla sua morte, ma quello che ha rappresentato per me e, credo, per tanti che seguivano le sue imprese. 
Avevo sedici anni quando, nel 1994, il Mortirolo rivelò al mondo questo giovane scalatore, che nel suo modo di stare in bicicletta e di affrontare le corse ricordava il ciclismo degli anni eroici, quello delle strade bianche, delle imprese di Coppi e Bartali, di Gimondi e di Merkx, che avevo solo sentito raccontare. E tutti, immediatamente, ci innamorammo di lui. A costruire il mito di Pantani, contribuì anche la sfortuna, che sempre lo ha perseguitato, come per l'episodio alla Milano-Torino del 1995 o gli incidenti in sequenza che lo costringevano a ritirarsi dal Giro. Fino al 1998, l'anno di grazia, in cui vinse le due corse più importanti e divenne immortale. Sembrava impossibile che, in un ciclismo basato sulla programmazione esasperata, in cui le corse a tappe si vincevano a cronometro, ci fosse ancora spazio per le imprese di uno scalatore capace, con un'azione solitaria, di far saltare il banco. 
Poi ci fu Madonna di Campiglio, il senso di vuoto dovuto alla caduta del Mito, la confusione e la sorpresa. Non riuscivo a capire come fosse possibile che il Grande Pantani, l'idolo della mia adolescenza, potesse scivolare su un controllo così banale, proprio lui che, in quanto simbolo dell'intero ciclismo, avrebbe dovuto essere il più sotto controllo di tutti. Non capivo perché quelli che fino al giorno prima lo chiamavano Pantasogno, ora parlavano di Tradimento. 
Ripensandoci adesso, a quattordici anni da Madonna di Campiglio e a nove dalla sua morte, in quei giorni drammatici, l'unica cosa veramente giusta la disse Aldo Grasso sul Corriere della Sera <<Bisogna che Pantani vada al Tour e lo vinca (qui)>>. Solo così avrebbe potuto zittire chi lo trattava da drogato per l'ematocrito alto. Scontata la sospensione di quindici giorni, avrebbe dovuto cercare il riscatto. La gente dimentica in fretta ed è sempre disposta a salire sul carro del vincitore. Invece, Pantani si chiuse in se stesso e nel suo dramma personale, fino alla morte, nel residence di Rimini.
Per me, Pantani ha rappresentato qualcosa di più di un semplice ciclista. Ha rappresentato il sogno che, in questi tempi mediocri, ci fosse ancora posto, nello sport come nella vita, per il gesto nobile e solitario di chi si eleva dalla Massa e rischia tutto pur di affermare al Mondo: <<Sono qui e sono vivo!>>. A Gianni Mura che un giorno gli chiese <<Perché vai così forte in salita?>>, Pantani rispose: <<Per abbreviare la mia agonia>>. Rievocare la sua storia non è solo un dovere della memoria, ma è anche un esercizio malinconico e struggente, come quando ti guardi indietro e ripensi con rimpianto ai tuoi sogni da ragazzo, morti un giorno a Madonna di Campiglio.