venerdì 19 agosto 2011

Viaggio nella città morta due volte

Castelvetrano, agosto 2011.





Erano anni che sentivo parlare di Gibellina. "Errì......Gibellina è da vedere, ci sono passati i meglio architetti", mi ripeteva, invariabilmente, ogni estate mio cognato. E giù lunghi monologhi su questa città e la sua particolare storia. A me quel nome non diceva niente; il terremoto del Belice era una memoria ormai lontana che non avevo mai considerato, catalogata tra le tante tragedie italiane tutte sempre uguali, quando la terra trema e i sopravvissuti restano prigionieri dei conteiner, delle baracche e degli interessi di chi specula sulla loro pelle.

Poi, ho pensato che era ora di andare a fare un giro da quelle parti e così, insieme alla mia fotografa di fiducia, abbiam preso la macchina e imboccato l'autostrada Palermo- Mazara del Vallo, direzione Palermo.



Fatti pochi chilometri, prendiamo l'uscita S. Ninfa: sul cartello stradale, tra le varie indicazioni, quella "Ruderi di Gibellina". Si, perchè di Gibellina ce ne sono due: quella distrutta dal terremoto del 1968, che in tutta la valle del Belice fece circa un migliaio di morti, e quella nuova, costruita a circa 20 km di distanza dalla vecchia, la Città Ideale voluta dal senatore ed ex sindaco di Gibellina, Ludovico Corrao, per tragica ironia della sorte assassinato proprio il giorno prima della nostra visita dal suo giovane domestico bengalese.

Dall'uscita dell'autostrada si prende la Statale "Asse del Belice" che, a dispetto del nome altisonante, è una delle tante "trazzere" che costituiscono la viabilità della Sicilia. La strada è praticamente deserta, nel silenzio delle pale eoliche che girano. Ad un certo punto si interrompe, a causa di una delle tante frane che segnano le strade siciliane; proprio sotto, una grande croce apre il cimitero che raccoglie i resti di coloro che persero la vita a Gibellina nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968.

Un senso d'angoscia ci prende mentre scendiamo per la trazzera che, tra la vegetazione che invade la carreggiata, ci porta alla città fantasma. Penso al dramma vissuto dalla popolazione e a come fu difficile per i soccorritori arrampicarsi fin quassù, in queste terre sconosciute al resto d'Italia. Gibellina era un paesino di contadini e pastori arrocato sul fianco di una montagna, piccole case di tufo unite l'una all'altra, viuzze strette. L'Italia del '68 aveva già vissuto il boom economico e i figli della borghesia scendevano in piazza per contestare quella società che i loro padri avevano costruito. Niente di tutto ciò aveva sfiorato questa terra che ora veniva così duramente colpita: chi poteva emigrava e ora non aveva neppure più un paese a cui ritornare.







La memoria di quello che fu Gibellina vecchia è conservata nel Cretto di Burri, un'enorme tomba di cemento che avvolge la montagna, con fenditure tra un blocco e l'altro, a riprodurre la struttura urbanistica e viaria dell'antico centro abitato. L'opera fu progettata da Alberto Burri e realizzata tra il 1984 e il 1989. Sulla vallata domina un silenzio solenne, ma camminando tra i cretti si ha come l'impressione di sentire il brusio della vita che c'era e ora non c'è più: grida, rimandi, echi, richiami. Un modo originale e commovente di rendere omaggio ai morti.

Presi ancora dalla solitudine solenne dei ruderi, ci muoviamo verso Gibellina Nuova. Sappiamo vagamente cosa ci aspetta: abbiamo sentito parlare della sua architettura metafisica. Corrao chiamò, per la ricostruzione, i grandi nomi dell'epoca (Ludovico Quaroni, Giuseppe e Alberto Samonà, Vittorio Gregotti, Gianni Pirrone, Francesco Venezia e Oswald Mathias Ungers), per edificare, in questo angolo di Sicilia, la Città Ideale. Un'architettura carica di simboli che rappresentasse la rinascita, anche culturale, di Gibellina e di tutta la valle del Belice, su basi del tutto diverse da quella che era stata fino al terremoto la tradizione ancestrale di queste terre.

Riprendiamo, quindi, la statale. Continuiamo a non incrociare altre macchine, solo un ciclista coraggioso che si arrampica per i tornanti e un contadino che torna dai campi col suo trattore. Lungo i 20 km che separano il vecchio abitato di Gibellina dal nuovo, passiamo attraverso Santa Ninfa, altro paese colpito dal sisma. L'arrivo a destinazione è segnalato dalla Stella in acciaio dello scultore Pietro Consagra, concepita “come una porta di attraversamento, un confine di apertura...per Gibellina e per il Belice tutto”. L'opera lascia senza fiato, non tanto per la sua maestosità, quanto per il senso di estraneità con i luoghi che ci circondano.

Entriamo a Gibellina Nuova e ci sembra di essere in un posto che potrebbe essere la perifieria di una città emiliana, oppure un museo di quella particolare forma d'arte che è l'Incompiuto Siciliano: da una parte, moduli abitativi tutti uguali, che si susseguono con una regolarità angosciante; dall'altro, edifici monumentali mai portati a termine, con lo scheletro di cemento armato rivolto verso il cielo.






Sembra un labirinto, non ci sono punti di riferimento. Cerchiamo il centro e ci imbattiamo nel Sistema delle Piazze, che dovrebbe rappresentare una sorta di policentrismo cittadino o, meglio, “la concatenazione di cinque grossi vuoti urbani risultanti dalla assenza di edifici abitativi al loro interno”. Peccato che l'opera non sia mai stata ultimata: a trent'anni dal progetto definitivo e a 24 dall'avvio dei lavori, mancano ancora due piazze all'appello. Quando arriviamo noi, son le 19.30, la piazza è vuota e 4 bambini fanno evoluzioni con le loro biciclette, unendo le assi di un palco improvvisato. E poi c'è il Meeting, sempre di Pietro Consagra, una struttura di acciaio, vetro e cemento, che originariamente avrebbe dovuto ospitare un museo e, invece, oggi ospita il bar forse più pacchiano d'Italia.

Camminando per le strade e per le piazze della città, la sensazione è di generale desolazione e di eccentricità rispetto ai canoni tradizionali dell'architettura siciliana, anche rispetto agli orrori delle abitazioni moderne che ormai circondano i centri storici dei paesi.

Con Gibellina Nuova è stata fatta un'operazione di "arroganza intellettuale", volendo trapiantare nel cuore della Sicilia tradizionale esperienze architettoniche che sarebbero state più adatte a capitali come Berlino, Parigi o New York, piuttosto che alla Valle del Belice.

Nello sprezzo di una popolazione che, oggi, se vuole ritrovare la sua storia, deve andare sul Cretto di Burri (dove non per nulla si è svolta la veglia funebre per il senatore Corrao), piuttosto che nelle architetture metafisiche della Città Ideale.

“Se Corrao è stato un costruttore di architetture mentali- scrive Sergio Troisi su la Repubblica del 10 agosto, in un ricordo del senatore ed ex sindaco- le fondamenta di quegli edifici intellettuali attraversano l'isola connettendola alle vastità del mondo cui è sempre stata legata, a dsipetto di ogni identità localistica, di cui infatti Corrao era avversario irriducibile”. Proprio in questo avversare l'identità locale sta il peccato originale di Gibellina nuova.

Terminiamo il nostro viaggio e riprendiamo la macchina. La carcassa di un grosso cane nero giace in mezzo ad una delle strade della città: nessuno l'ha rimossa. Ultimo e, forse, più vero simbolo di una rinascita che non c'è mai stata.



Note: citazioni tratte da "La lezione di Gibellina- La Sicilia dell'utopia esportata nel mondo", di Sergio Troisi, la Repubblica- Palermo, mercoledì 10 agosto 2011


e da http://www.regione.sicilia.it/bbccaa/darc/allegati/convenzioni/relazione_piazze_gibellina.pdf