lunedì 3 dicembre 2012

Lacrime di coccodrillo

Ad un anno dall'entrata in vigore della Riforma delle pensioni che porta il nome della ministra Fornero, credo si possa dire che non sia stata compresa appieno la portata drammatica che questa avrà sulla vita delle persone. A parte la questione dei c.d. "esodati", di cui molto si è parlato, il resto della riforma non è stato particolarmente approfondito, altrimenti ci sarebbero state le barricate in piazza e i sindacati avrebbero fatto ricorso, come in passato, all'arma dello sciopero generale. O forse no. Forse siamo stanchi e disillusi, convinti che, alla fine, lor signori ce lo metteranno sempre in quel posto.
Prima del 6 dicembre 2011, data di emanazione del d.l. 201, si poteva andare in pensione in due modi: o con la vecchiaia (65/60 anni di età se uomini o donne e almeno 20 anni di contributi) o con la pensione di anzianità (al perfezionamento di requisiti di età, contributi, più la c.d. "quota", oppure con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età). Una volta perfezionati i requisiti, bisognava attendere la "finestra d'uscita", che il governo Berlusconi, con la legge 122 del 2010, aveva reso "mobile": per avere il pagamento della pensione, bisognava aspettare 12 mesi se si aveva tutta contribuzione da lavoratore dipendente, 18 mesi se da lavoratore autonomo.
La Riforma Fornero ha semplificato le cose, eliminando il sistema delle "finestre", ma inasprendo i requisiti e introducendo una "clausola capestro" che renderà la pensione un miraggio per tanti: l'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Due restano i trattamenti pensionistici: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Fermo restando il requisito dei 20 anni di contributi, la prima introduce novità soprattutto per le lavoratrici del settore privato, che vedono allontanarsi l'età della pensione, fino ad eguagliare, a partire dal 2018, il requisito anagrafico già oggi richiesto agli uomini e alle donne del settore pubblico: 66 anni.  Le più colpite sono le donne del 1952, che col vecchio sistema avrebbero maturato il diritto a pensione quest'anno e che, invece, vedono allontanarsi inesorabilmente il traguardo. Forse mosso a compassione, il Governo ha cercato di rimediare introducendo, per questa categoria di lavoratrici, una "clausola eccezionale". In sostanza, le donne che fanno 60 anni entro il 2012 e hanno 20 anni di contributi, potranno andare in pensione a 64 anni, anziché a 66. Ma non tutte: solo quelle che, al 28 dicembre 2011, svolgevano un'attività di lavoro dipendente nel settore privato. Niente da fare per le lavoratrici autonome e niente da fare per quelle che, maturati i 20 anni di contributi, avevano lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia o a se stesse, in attesa di compiere 60 anni. 
Si ha diritto alla pensione anticipata una volta maturati almeno 41 anni di contributi per le donne e 42 anni per gli uomini (contro i precedenti 40), a prescindere dall'età anagrafica. Chi, però, matura il diritto  e decide di andare in pensione prima dei 62 anni, si vede decurtata la pensione di un 1%, se ha un'età compresa tra 60 e 62 anni; di un 2% se di età inferiore a 60 anni. Questo significa che un Tizio che va in pensione a 58 anni con 4 anni di anticipo rispetto ai 62, vedrebbe la sua pensione decurtata del 6%. Mica male. E questa decurtazione se la porterà dietro per tutta la vita. Anche questo è stato studiato come un incentivo a lavorare di più. Una delle tante astuzie o specchietti per le allodole di cui è disseminata la Riforma, è stata introdotta col decreto Milleproroghe. In questo, si dice che evita la penalizzazione chi va in pensione anticipata entro il 31 dicembre 2017, prima dei 62 anni, a condizione che i contributi derivino da effettiva prestazione lavorativa. Se, invece, nella posizione contributiva ci sono, tra gli altri, periodi di disoccupazione, il beneficio salta. E in un epoca in cui si va sempre più verso la precarizzazione del lavoro, con periodi di occupazione alternati ad altri di disoccupazione, è evidente come si tratti di una norma che avrà ben scarsa applicazione.
Ma il vero grimaldello utilizzato dal legislatore per renderci veri e propri schiavi, è l'introduzione dell'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Questo criterio (già in parte portato dal Governo Berlusconi con le leggi 111 e 148 del 2011, ma in maniera più soft) è stato utilizzato come una clava dal Governo Monti e si applica ai requisiti anagrafici di tutti i trattamenti pensionistici (compreso, tra gli altri l'assegno sociale) e ai requisiti contributivi della pensione anticipata. Il primo adeguamento alla speranza di vita (3 mesi) scatterà il 1 gennaio 2013. Questo significa, ad esempio, che un uomo che lavora nel privato andrà in pensione di vecchiaia a 66 anni e 3 mesi; o che una donna andrà in pensione anticipata a 41 e 5 mesi (2 mesi li aveva già gentilmente concessi Berlusconi). Gli adeguamenti avranno cadenza triennale fino al 2019 e diventeranno biennali dal 2021. Un sistema come questo rende praticamente irraggiungibile la pensione e ci condanna a morire sul lavoro.
Particolarmente odioso, poi, è il trattamento riservato agli assicurati dopo il 1 gennaio del 1996, ai quali si applica un sistema contributivo puro. A questi, ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia, oltre all'età e ai 20 anni di contributi, si chiede anche un importo della pensione non inferiore a 1,5 volte l'assegno sociale. Per il 2012 l'importo sarebbe di 643,50 euro e, ovviamente, crescerà nei prossimi anni. Una soglia irraggiungibile per tanti che col sistema contributivo si troveranno pensioni da fame.
Una Riforma come questa, che incide a fondo sulla carne viva del Paese, è stata fatta sotto la scure dello spread, per rassicurare i mercati. Ed è piuttosto discutibile che per rassicurare un'entità astratta come i mercati, si vada a rovinare in questo modo la vita delle persone. Ed è stata fatta in fretta e furia, senza calcolare bene le conseguenze. Il balletto di numeri sugli "esodati" (prima 65 mila, poi 120 mila, poi 390 mila e poi chissà) al riguardo è eloquente.
La ratio che ha guidato il legislatore è stata perseguire il massimo risparmio sulla spesa previdenziale, scaricando sulle imprese il costo di lavoratori vecchi e improduttivi. Si sa, infatti, che il lavoratore anziano produce meno, perché meno motivato, e costa di più alle aziende, che fino ad oggi usavano la leva degli ammortizzatori sociali (in particolare la cassa integrazione e la mobilità) per accompagnarne l'uscita pensionistica. Oggi, con la riforma degli ammortizzatori sociali che partirà dal 2013, la mobilità andrà scomparendo e saranno sempre più difficili gli incentivi all'esodo per i lavoratori, visto che la prospettiva della pensione si allontanerà sempre di più.  
E' uno scenario nuovo e imprevedibile quello che si apre. L'unica cosa certa è che bisognerà trovare il modo di reinventarsi la propria vita. Pensare di dover lavorare fino a settant'anni e oltre è impossibile, c'è da impazzire.




  


domenica 2 dicembre 2012

Inchiesta "Tutte le Ilva d'Italia"

Un'inchiesta di Repubblica su i tanti siti industriali in Italia che hanno creato e creano tutt'oggi danni alla salute pubblica e all'ambiente. Uno squarcio su come negli anni del boom economico sia stata concepita la via italiana allo sviluppo. Leggi qui.